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Storia
Pubblicato il 22 febbraio 2011
UN BARBETTO TRIORESE
......In molti borghi liguri quando si parla di barba si intende lo zio e come tale lo si chiama anche comunemente; ecco allora il barba Tunin, il barba Giuanin, il barba Chechin e via dicendo. Pochi sanno il reale significato del termine, che sta ad indicare il pastore valdese. Per questo motivo i Piemontesi chiamarono scherzosamente barbetti i fedeli della chiesa fondata da Valdo nel XII secolo.
......Tale appellativo, con il trascorrere degli anni, anzi dei secoli, modificò radicalmente tanto che con tale nome vennero chiamati i volontari al servizio del re di Sardegna Vittorio Amedeo III, allo scopo di vigilare sulla sicurezza delle frontiere per impedire ai repubblicani francesi l’invasione del Piemonte e delle pianure dell’alta Italia, in ciò d’accordo con l’alleato austriaco. Particolarmente coraggiosi, conoscitori dei luoghi dov’erano nati, difendevano i loro paesi, le loro proprietà, i loro immobili ed i loro campi. Per il re erano fedeli combattenti e come tali dovevano essere trattati, alla stregua dei militi regolari.
......Vicino a questi intrepidi corpi di soldati delle montagne, da considerare veri e propri patrioti, durante le insurrezioni ed i disordini si formarono bande di scellerati, il cui unico scopo era il furto, sovente accompagnato da efferati omicidi. Pur essendo possibile che in taluni casi i due gruppi di barbetti abbiano fatto causa comune, non si possono in alcun modo confondere.
......Solo in seguito all’armistizio di Cherasco del 28 aprile 1796, con la cessazione delle ostilità fra l’armata francese in Italia ed il re di Sardegna, seguito dal trattato di pace di Parigi del 15 maggio dello stesso anno, non fu più possibile ingenerare alcuna confusione. I barbetti propriamente detti si affrettarono a deporre le armi, mentre gli altri, isolati e liberi, avidi di saccheggi e rapine, fecero man bassa su tutto e su tutti, infestando ancora a lungo le montagne. Quella che si verificò dopo il maggio 1796 fu una vera e propria giustizia sommaria; in molte località i presunti barbetti vennero giudicati e condannati da tribunali improvvisati. Ne fecero le spese molti innocenti; ad esempio alla Scarena (oggi Escarène) furono giustiziati oltre 35 barbetti, dodici dei quali morirono senza sacramenti, loro rifiutati dal tribunale stesso. Un famoso capo, Fulconis di Scarena, detto Lalin, fu sorpreso a tradimento e, dopo essere stato addormentato con un sotterfugio, fu ucciso con una fucilata dal suo migliore amico. Il cadavere, disteso su di un mulo, venne fatto passeggiare, come si trattasse di un trofeo o di un crudele avvertimento, lungo le vie di Nizza. Stessa sorte toccò ad un altro capo, Contin di Drap, figura divenuta leggendaria, ingannato dal generale Garnier, che gli fece promesse poi non mantenute ed infine, dopo torture e vicissitudini, venne fucilato a Nizza. Anche in altre località, quali Briga, Rocchetta, Dolceacqua, Camporosso, Perinaldo, Isolabona, la caccia ai barbetti fu intensa e tragica. (1)
......Ogni brigante catturato era inizialmente ricompensato con venti quintali di frumento; indi venne istituito un premio di cinquanta franchi, aumentato a cento per ogni capo. Un’ordinanza della Repubblica Francese del 10 marzo 1801, firmata dal prefetto Florens, disponeva che tutte le colonne mobili del dipartimento delle Alpi Marittime fossero poste in requisizione e messe in attività per marciare contro i briganti, “conosciuti sotto il nome di barbetti”. L’inseguimento avrebbe dovuto continuare anche sul territorio di altri comuni, previa comunicazioni ai loro sindaci. Dopo aver previsto la somministrazione di pane e delle indennità previste, l’ordinanza prevedeva appunto un compenso di cinquanta franchi per ogni barbetto e di cento franchi per ogni capo di barbetti; gli stessi avrebbero dovuto essere arrestati e condotti nella Casa di Giustizia a Nizza. Le somme sarebbero state pagate su ordine del prefetto, immediatamente dopo la sentenza di condanna.(2)
......Evidentemente le misure prese non furono ritenute efficaci se il 23 luglio dello stesso anno il prefetto Florens decideva di emettere una nuova ordinanza, disponendo la requisizione e la messa in attività delle colonne mobili nei comuni di Utelle, Levens, Roccabigliera, Luceram, Mentone, Eza, La Briga, Tenda, Breglio e Sospello. Le colonne, composte da venti uomini ciascuna, comandate da un luogotenente, si sarebbero mosse su comando dei sindaci dei comuni sopraddetti. La ricompensa di cinquanta franchi disposta in precedenza era aumentata a cento franchi per ogni barbetto catturato, mentre per ogni capo sarebbero stati corrisposti ben centocinquanta franchi; le somme sarebbero state erogate a chi avesse effettuato materialmente l’arresto.(3)
......Le efferatezze dei banditi vennero purtroppo segnalate un po’ ovunque, anche nella riviera ligure di ponente, dove ogni giorno si verificavano, in un periodo di estrema povertà e confusione, incidenti di ogni genere: ruberie, saccheggi, prepotenze ed omicidi. In questo tragico periodo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, gli animi si adeguavano alla lotta e si assuefacevano al combattimento: l’uccidere era, più che un’eccezione, una consueta esternazione di forza virile. Alcuni banditi di Taggia, altri di Pietrabruna divennero tristemente celebri, mentre si moltiplicavano le incursioni nelle varie località, soprattutto dell’entroterra.(4)
Da questi disordini non fu indenne la valle Argentina, nella quale in tale periodo si verificarono soprusi di ogni genere. Fra gli episodi di barbettismo, termine coniato appositamente per indicare il brigantaggio con tutti i suoi eccessi, va segnalato quello che vide protagonista un triorese.
***
......Le notizie giunte da Diano erano chiare: finalmente Antonio Verrando, detto Barraglia, era stato arrestato. Il 19 settembre 1801 Nicolò Moraldo si presentò quindi davanti al giudice di pace di Triora affinché quel delinquente venisse finalmente processato per i suoi misfatti. La municipalità triorese si attivò immediatamente inviando una lettera al tribunale civile e criminale del Capo Mele con la richiesta di consegna del Verrando e la sua traduzione nelle carceri in attesa di essere giudicato.
......Il prigioniero fu subito consegnato alla forza armata di Triora, composta da non meno di sette persone. Durante il tragitto si fermarono in un’osteria di Badalucco, dove molti paesani, incuriositi, accorsero per vedere di persona il Verrando, la cui fama era tristemente famosa in tutta la valle. Fra costoro lo stesso giudice di pace di Badalucco, il prete Giambattista Panizzi e Giovanni Novella con il fratello.
......Giunti a Triora, il bandito venne incarcerato nelle carceri del luogo. Il primo ottobre si procedette ad un primo interrogatorio.
......Si venne così a sapere che il vero nome dell’accusato era Luca Maria Verrando di Luca Maria, di ventisei anni, essendo nato a Triora il 19 ottobre 1874, dalla gente chiamato Antonio. Arruolatosi a Genova il primo giorno del carnevale precedente, verso sera, si era fatto registrare con il nome di Luca Maria Tedesco, in quanto, avendo disertato ai tempi dell’antico governo, aveva timore di essere punito. Dopo la diserzione era tornato a Triora, dove aveva abitato per qualche tempo lavorando nelle campagne; accortosi che rischiava di essere arrestato, si era nuovamente arruolato in qualità di soldato nel secondo battaglione del cittadino Langlais. Successivamente nel 1798 aveva di nuovo disertato a Ventimiglia, trasferendosi a Pontedassio. Qui – sempre secondo il racconto del Verrando – si era fermato per due o tre anni, lavorando nelle campagne agli ordini di Pietro Antonio Sasso Mascella, di Pin detto il Nato e dell’avvocato Gialetto; il suo guadagno consisteva in dodici-quindici lire, oltre al vitto ed all’alloggio gratuito. Non appena si verificarono insurrezioni nella valle di Oneglia si era recato a Mondovì, senza tuttavia fermarvisi, bensì seguendo il percorso da Alba ad Asti, discendendo poi a Finale, dove aveva lavorato alcuni giorni, ed infine a Savona. Interrogato se avesse conosciuto i barbetti ossia i briganti che infestavano la valle di Oneglia, rispose di averne sentito parlare, anzi che alcuni di essi erano stati catturati dai soldati francesi. Egli stesso – ammise – era stato arrestato, rimanendo in carcere per tre mesi, in quanto sprovvisto di passaporto. Scarcerato, il primo giorno di carnevale si era appunto arruolato.
......Essendo reticente in diversi punti, il Verrando venne solo parzialmente creduto, per cui vennero effettuate approfondite ricerche e sentiti alcuni testimoni. Il tribunale stesso non aveva alcun dubbio: si trattava di “un uomo scellerato, accusato di barbettismo in compagnia di altri, che non aveva mai confessato di fare scorrerie”. Risultava invece dal processo che “aveva fatto frequenti scorrerie in Triora e nei paesi vicini”, invitando perciò il giudice ad effettuare gli accertamenti “con la massima attenzione e premura affinché venissero estirpati simili esseri indegni e troppo perniciosi alla società”. Si invitavano anche i giudici di Pontedassio e di Borgomaro a trasmettere tutte le testimonianze e le prove raccolte per inchiodare il Verrando.
......Il 18 ottobre si venne in tal modo a sapere che il bandito aveva anche partecipato all’omicidio di Paolo Batta Marvaldi di Borgomaro, assieme ad un certo Paolin di Dolcedo, a Gioachino Ranixio e ad un certo Zaneto di Carpasio. Le prove contro l’accusato risultarono veramente imponenti, per cui il 22 ottobre e l’11 novembre lo si interrogò nuovamente, invitandolo a confessare i suoi misfatti. Tutto si rivelò inutile: il Verrando continuava a dichiararsi innocente ed estraneo ai fatti contestatigli. Egli si guadagnava il pane lavorando nelle campagne e nei gumbi, cioè nei frantoi per le olive.
......Visto che insisteva nel suo atteggiamento, gli furono pubblicamente contestate le seguenti accuse:
......Dopo l’elencazione delle contestazioni, l’imputato venne invitato il 30 novembre a dire quanto volesse a sua discolpa, entro tre giorni.
......Non proferendo alcuna parola, anzi continuando a protestarsi innocente, il giudice trasmise gli atti al tribunale di Sanremo.
......Qui il 10 maggio 1802 il presidente del tribunale Gaudio, assistito dal capo aggiunto Saccheri, emise, presente l’imputato incarcerato in quelle carceri, la propria sentenza: Verrando Antonio detto Barraglia fu condannato a morte, da eseguirsi per mezzo di pubblica fucilazione, ed in modo “che l’anima fosse depurata dal corpo e naturalmente morisse” con la refusione dei danni a favore delle vittime e con la confisca dei propri beni a favore della Cassa nazionale.
......Il giorno successivo Pier Gio Rambaldi, ufficiale e protettore dei poveri carcerati, presentò una scrittura mediante la quale Antonio Verrando dichiarava di voler ricorrere contro la sentenza proferita. Era ormai troppo tardi. La giustizia seguì il suo corso: il 21 giugno fu ordinata l’esecuzione della sentenza ed il 23, all’ora di terza, venne fucilato.(5)
. . . . . . . . . . . SANDRO ODDO
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(1) Le notizie sono ricavate principalmente dal lavoro di H. SAPPIA, pubblicato a puntate su Nice Historique, ed in particolare: anno 1905, pagine 296-308; anno 1906 (pagine 13-26, 44-46, 54-57, 92-95, 144-148, 192-200, 210-217, 239-248, 285-289, 304-307); anno 1907 (pagine 26-30, 41-47, 63-64, 76-80). Altre informazioni sono tratte da FUCHE', Fuché et le Barbets, pubblicato sugli Annales du Comté de Nice, n. 6, 1932, pag. 337-3838 e da A. CANE, Quelques aspects de la lutte contre le barbets dans la vallée de la Nervia, pubblicato su Nice Historique, anno 1942, pagine 42-44. Questi documenti sono stati consultati presso la biblioteca dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri di Bordighera.
(2) ARCHIVIO DI STATO DI IMPERIA, SEZIONE DI SANREMO, Sottoprefettura, 20/58.
(3) ARCHIVIO DI STATO DI IMPERIA, SEZIONE DI SANREMO, Sottoprefettura, 20/58.
(4) NILO CALVINI, Un cinquantennio di attività per la storia del Ponente Ligure, vol. II, pagg. 465-467.
(5) ARCHIVIO DI STATO DI IMPERIA, SEZIONE DI SANREMO, Curia di Sanremo, 3/4
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